Galleria Semid'Arte

Maria Cristina Ballestracci

L’attenzione femminile a ciò che è smisurato, sottile, indicibile è detto in modo esplicito o implicito da tutta la storia della letteratura. Molto meno si è riflettuto su questa peculiarietà nel mondo delle arti figurative che molto si prestano a misurarsi con ciò che paradossalmente non ha misura. Cristina Ballestracci sceglie di fermare e sottolineare l’incommensurabile, ciò che non ha limite umano e ci sovrasta vicino e altissimo, fascinoso e tremendo, utilizzando i più umili oggetti della quotidianità e optando in gran parte per dimensioni contenute, a volte minimali. L’intenzione più ovvia ed immediata è quella di ridare vita a oggetti scartati: pezzi di legno, foglie secche, sassi, pietre. O meglio di rivelare il loro spessore intellettuale e lirico dimenticato, ponendoli in dialogo con la pittura e la poesia. Cristina, per intuizione propria è giunta all’insegnamento dei grandi mistici per cui le cose più umili e indegne a rappresentare l’assoluto, si rendono meglio disponibili ad accoglierlo e significarlo. E non è un caso se deve essere proprio un cuore pensante femminile a vivere la vicinanza intuitiva a queste anime immense e ferite dalla malinconia divina. All’artista, spetta sempre ascoltare e trasfigurare gli oggetti eletti attraverso un lungo lavoro interiore e manuale. Così, per Cristina si rende obbligatorio narrare la loro storia in modo originario e universale, costruendo piccole cosmologie che rimandano alla brevità dei frammenti di Eraclito, alle sintetiche visioni della Dickinson, agli haiku della tradizione buddista ch’an o zen. Si tratta di una peculiare pietas o religio dei relitti del mondo che, inascoltati, portano in sé il suo senso e restano come noi umani sospesi su un destino terribile e indispensabile, insopportabile e necessario che ha nome Bellezza. Cristina ha saputo offrirci cristalline meditazioni sospese sull’incandescenza spesso dolorosa della realtà senza argini. Oso citare, per concludere, un verso “liturgico” di C. Campo, con cui si può suggerire la tremenda poetica del minuscolo:

“poiché qui Dio non parla nel vento,
Dio parla nel tuono:
parla in un piccolo alito
e ci si vela il capo per il terrore”.

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